4.05.2013

APOLOGIA DEL 'TRADUTTORE'

Tradurre è un'arte alquanto ardua, specie se l'oggetto del lavoro è una composizione in versi distante miglia ed anni dal nostro tempo. Durante il trasporto del corpus letterario, qualcosa andrà per forza perso, intaccando più o meno seriamente la densità semantica tipica di questo genere, così come rime, metrica, sintassi, costruzioni, riferimenti culturali a noi alieni. Come una barca che per giungere da porto a porto, deve sacrificare quelle parti di se incastratesi negli scogli del viaggio.
Ma se c'è un modo che permetta a questa barca malridotta di giungere a destinazione, questo è sforzarsi di bloccare la falla più grande. Con questa blanda metafora, che spero mi esuli dalla spiegazione delle varie teorie di traduzione e quant'altro ( per chi ne fosse interessato, il web ne è stracolmo), intendo sottolineare l'intento (per carità, personalissimo) di traslare principalmente il senso ( cfr. IL MESSAGGIO) a scapito del resto. Che sia la scelta giusta o meno, per me non è di alcun rilievo, così come la decisione di pubblicare il risultato dei miei studi ( per carità, personalissimi nonché incompleti) non è una dichiarazione deontologica di categoria. Al contrario, si tratta solo di leggere e di scrivere, di discutere le eventuali decisioni, di modificare le scelte fatte. Si tratta di espansione culturale, di far giungere la famosa barca in più posti possibile, per poi tornare al porto con qualcosa di nuovo. Quest'altra blanda metafora è semplicemente la volontà di istigare il lettore al dibattito letterario, non tanto sul senso o sul modo di tradurre, quanto sul suo risultato finale.
Nella speranza che la prossima patetica dichiarazione d'amore che avrò modo di sentire, non sia un infame copiaincolla di un banale Fabio Volo, quanto più una autorevole citazione di Stein o Cummings.
E questo è quanto.

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